Dopo le elezioni, il sindaco eletto può subire una metamorfosi, o restare se stesso (ma è raro!). Spesso, prevale la figura del >sindaco-padrone prosaico, uno sfortunato che si crede fortunato. Di Carmine Cimmino
Leggo gli sviluppi delle vicende “sindacali” di Acerra, vedo e sento in televisione il sindaco di Parma, Pizzarotti, penso che i 90 giorni successivi alla elezione siano per i sindaci i più difficili, perché essi si espongono, senza protezione, alla “chimica“ dei fumi e dei vapori che si sprigionano dalla sedia e dalle pareti dell’ufficio. Il composto di virtù e di difetti, di sentimenti e di pensieri grandi e piccoli, che è la struttura della loro persona – è la struttura di ognuno di noi – viene attaccato dalle esalazioni di un potere che è diverso da qualsiasi altro potere politico, perché si esercita in luoghi che sono non un vago nome, ma lo spazio della vita quotidiana, in cui si muovono donne e uomini che non si confondono nella folla, ma risultano, nella concretezza dell’individualità e nell’agonismo del rapporto personale, amici o avversari, sostenitori o nemici.
Alcuni sindaci resistono alla “chimica”: restano sé stessi, continuano ad essere le persone che i cittadini valutarono nella cabina elettorale. Altri vengono contaminati. Il composto diventa miscuglio, dalla “chimica” dei fumi (e delle promesse elettorali) escono forze incontrollabili, e può capitare – capita spesso – che la fermentazione di quel brodo fiacchi e sgretoli le virtù ed esasperi i difetti. Ma, soprattutto, da quel ribollio si sviluppano difetti nuovi, stranezze impreviste, virus perniciosi. Dopo cinque, sei mesi la gente incomincia a chiedersi: ma è lui che abbiamo votato? O è un fratello gemello? La sedia e l’ufficio possono generare “mostri”: creature incredibili di una zoologia fantastica degna della penna di Borges.
Il “mostro” più comune è il sindaco che si illude di essere il padrone della città. Ce ne sono due tipi: uno epico-tragico, l’altro, diciamo così, prosaico. Del tipo prosaico molte sono le varianti: la prosa, si sa, può sgangherarsi fino alla banalità, fino al ridicolo. Il tipo epico- tragico è un infelice che si convince d’essere protagonista di un processo di fusione consustanziale: tutta la città è in me, i suoi quartieri sono le mie membra, le sue strade sono le mie arterie, e perciò non voglio, nelle strade, né buche, né fossi, né scassi, né scavi. Infine, tutti i cittadini devono pensare attraverso il mio pensiero: la mia verità è la loro verità, il loro bene è il mio bene. Questo “mostro“ con la vocazione del demiurgo e del pigmalione potrebbe anche essere una fortuna per la sua città, ma il tipo è abbastanza raro. Purtroppo.
Purtroppo il tipo dominante è il sindaco – padrone prosaico, il sindaco che crede non di aver vinto una competizione elettorale, ma una guerra di conquista. Quasi sempre è uno che ha costruito la sua vittoria sulla promessa di mettersi 24 ore su 24 al servizio dei cittadini, ma il suo programma vero comprende solo 4 principi: articolo terzo ( in napoletano del ‘700): niente abbranca chi have perzo; articolo sesto: l’avversario o si arrende o lo calpesto; articolo ottavo: io sono il più bravo; articolo nono: questa non è una sedia, è un trono. Anche lui, insomma, è un infelice: anzi è uno sfortunato che si crede fortunato: gli dei crudeli si prendono gioco di lui sprigionando dalla “chimica” vapori densi di vanità che rapidamente pervadono tutto il suo essere, e lo inducono a immaginare che il suo Ego, io, io, io, copra la città come una cupola, come una cappa.
Sono molti gli indizi della sindrome: ovviamente non hanno valore assoluto. Per esempio, il sindaco- padrone prosaico si muove poco a piedi, di solito: e solo in spazi stretti: uffici, corridoi, cortili, sale per le riunioni. E dunque si abitua a camminare come in una cella: a passi brevi, facendo leva sulle punte dei mocassini, con le ginocchia rigide e le chiappe rattrappite. Chiappe “sospettose” le chiama, sarcastico, il giovane autore di un romanzo che verrà pubblicato prossimamente, e il cui titolo provvisorio “L’ora triste” allude chiaramente alla “Mala ora” di Garcìa Màrquez. Questo rattrappimento “postergale“ è un riflesso fisiologico della psicopatologia della politica: ne parleremo prossimamente, nell’articolo dedicato alle scarpe del sindaco- padrone prosaico – le scarpe sono indizi fondamentali -, ai suoi “amici”, alle sue tecniche di guerra, e agli effetti, micidiali per la città, di questo suo modo di muoversi .
Per ora diciamo che il sindaco- padrone prosaico non fissa mai, quasi mai, gli occhi del suo interlocutore: guarda talvolta a terra, talaltra a destra e a sinistra, ma assai spesso oltre. Che significa guardare oltre? Per capirlo, basta osservare come l’on. Formigoni guarda chi si permette di far domande sul signor Daccò. In questo modo di guardare “oltre“ ci sono due messaggi: 1) quello che dici non mi interessa, e perciò spicciati; 2) quello che dici dimostra che non capisci nulla, e perciò spicciati. Questo sguardo “oltre” Cicerone lo vedeva negli occhi di Marco Porcio Catone, che fu poi chiamato l’Uticense.
Il grande oratore, che fu sempre consapevole dei suoi vizi, e ad alcuni di essi era affezionato, non sopportava quel modello assoluto di onestà, di integrità, di legalità, di moralità che Catone volle incarnare nell’ultimo “teatro“ della Repubblica, prima che Cesare spazzasse via tutto. Catone non parlava: predicava, fustigava, lanciava anatemi e scomuniche su una Roma che appariva, anche a lui, già a lui, una Torre di Babele. Nell’ inverno del 63 Cicerone, console in carica, difese L.Licinio Murena, console eletto per il 62, che era stato accusato di brogli e di corruzione elettorali (è una pratica assai antica), e che Catone aveva bollato non solo come corruttore e imbroglione, ma anche come saltator: il “console ballerino, il console bunga-bunga” (anche questa è una pratica assai antica).
Ma Cicerone contrattaccò con violenta ironia: questo Catone qui, quest’uomo perfetto che non ha pietà non dico dei vizi, ma nemmeno dell’ ombra dei vizi, questo santo che ci guarda tutti dall’alto della sua coscienza purissima, ebbene, durante la campagna elettorale si tira dietro, anche lui, come tutti gli altri candidati, lo schiavo nomenclatore, lo schiavo che conosce per nome tutti gli elettori e che ha il compito di sussurrargli nell’orecchio: guarda , questo tizio che ci viene incontro si chiama Publio, e quell’altro Caio, e quell’altro Filippo, e sua moglie ha partorito da poco; e Catone saluta Publio, Caio e Filippo, e chiede a Filippo di sua moglie e del neonato, esattamente come farebbero gli altri candidati.
E li saluti – incalza implacabile Cicerone, rivolgendosi direttamente a Catone -, come se li conoscessi di persona, uno per uno. Ma dopo che sei stato eletto, li saluti multo neglegentius. L’avverbio è intraducibile: li saluti con frettolosa, distratta degnazione, guardando “oltre”. Li saluti con supponenza. Il sindaco- padrone prosaico soffre di supponenza. Alla prossima.
(Quadro: Fernando Botero, Il Presidente, 1997)