IL NAPOLETANO, UNA LINGUA CHE “MANGIA” LE COSE

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Sui piaceri del banchetto vi sono pagine significative che pescano nei secoli precedenti. E, sorpresa, non trattano solo di maccheroni e cotenna, ma anche di epiteti ingiuriosi al maschile e al femminile. Di Carmine CimminoCreata da un popolo perennemente affamato, la lingua napoletana “vede“ il mondo attraverso il cibo, dal cui lessico attinge immagini, metafore, modi di dire imbevuti di sentimenti buoni e di tenerezza spesso zuccherosa, si’ ‘nu babà, e anche, e forse soprattutto, epiteti ingiuriosi. Giambattista Basile ha codificato questa lingua vorace, che pare aggredire il mondo per trasformarlo in un interminabile banchetto democratico, in cui le pietanze più raffinate vanno in tavola in compagnia delle erbe che sfamano i poveri. In Nuovo Convivio, pubblicato venti anni fa, Massimo Montanari ha raccolto, da scrittori europei di quattro secoli, pagine significative sui piaceri del banchetto.

Tra gli altri, trovano posto nell’antologia il tedesco Mattia Giegher, che nel 1639 scrisse un Trattato delle piegature sull’arte di preparare tovaglie e salviette; il medico Costanzo Felici e l’aquilano Salvatore Massonio, che furono paladini, l’uno intorno al 1570, l’altro mezzo secolo dopo, delle virtù dell’insalata; Lorenzo Magalotti, che, nella seconda metà del Seicento, ricamò in versi l’elogio del candiero, cioè del sorbetto, “bevanda modernamente inventata”. Trova posto anche l’anonimo autore di un poemetto sui maccheroni stampato a Verona nel 1785, in cui Pulcinella, maschera non più napoletana, ma italica, inventa la famosa pasta maccheronica lavorandola a mano, mentre oggi, dice l’anonimo, la spreme il torchio, e in più di dodici forme diverse, e Puglia e Liguria si contendono il vanto di essere la patria di tanta squisitezza.

Come si vede, questi “padani“ sono secoli che brigano per portarci via tutto: e, se non ci svegliamo, ci porteranno via anche il nome. Forse è vero che spaghetti e maccheroni sono stati inventati in Sicilia, o in Puglia, o in Liguria: ma i napoletani ne hanno fatto il simbolo della loro identità, e aspettiamo da una vita che qualcuno ci spieghi perché e come si è formata questa totale corrispondenza tra la pasta e il carattere partenopeo. I cronisti della cucina napoletana sono un esercito, ma mi pare che nessuno abbia aggiunto qualcosa di originale alle storie raccontate dal marchese Cavalcanti, da Di Giacomo, da Croce, da Stefanile. Dopo gli storici, dopo tanti cronisti, e dopo tanti raccoglitori di ricette, serve un filosofo , uno che ci sveli i valori culturali (la psicologia del gusto, la meccanica sociale ) su cui poggia la storia della cucina napoletana.

Basile è presente nell’antologia di Montanari con la fiaba Le sette cotennuzze (Le sette cotenne di lardo): la cotenna di lardo è un cibo da “pezzenti“, che nel tempo, e nel mutare del gusto, diventa correttivo saporoso di alcune minestre. Ma più significativa della fiaba delle cotenne è la Lettera IV, il cui autore, secondo Mario Petrini, che ha curato l’edizione Laterza, non può essere che Basile. La lettera è, prima di tutto, un succulento repertorio di epiteti ingiuriosi al maschile e al femminile, alcuni dei quali rimandano esplicitamente alla cultura del mangiare. Gli uomini di poco valore sono pappalasagne, zucavroda, scampolo d’allesse, maccarone senza sale, maccarone sautame- ‘n canna (saltami in gola), scolavallane.

I primi due epiteti colpiscono la stupido attraverso la volgarità del gesto assoluto: egli pensa solo a ingoiare lasagne e a succhiare il brodo, meccanicamente, senza chiedersi da dove venga il cibo che sta divorando. È uno stupido sfaticato e parassita, uno che non affronta la realtà. In succhiabrodo c’è anche l’ingiuria oscena. L’allessa è la castagna bollita senza buccia: un cibo di poco conto, e dunque scampolo d’allesse è uno che non vale niente: l’epiteto potrebbe avere una connotazione oscena, perché allessa è anche l’organo sessuale femminile. In questo contesto, scampolo d’allessa è veramente un’ ingiuria oltraggiosa, di cui la traduzione in minchione rende solo, e vagamente, l’idea di fondo. Maccarone senza sale è uno che ci inganna con l’apparenza: a vederlo, sembra che valga qualcosa, ma alla prova dei fatti risulta un buono a nulla.

Maccarone – saltami in gola è uno che è facile prendere in giro: s’ammocca tutto, se gli dici che gli asini volano, ti crede. Scolavallane vale per gli uomini e per le donne. I vàllane sono le castagne sbucciate e bollite: vanno mangiate nel loro brodo, che non solo è squisito, ma è anche un tonico contro la fiacchezza. Dunque chi scola i vàllane è uno stupido, perché getta via il meglio.
Nella lettera anche le donne pigliano ‘o ccuttòne: vengono bastonate con una sequenza di 36 epiteti offensivi: e tra questi, votta schiattata, scummavruoccole, zandraglia.

Votta schiattata (botte crepata e sfasciata) è la donna deformata dal grasso, che si è ammassato sui fianchi e sul sedere, sull’intensità dello sguardo e sulla lucidità della mente. Scummavruoccole, “schiuma broccoli“, è la serva sciocca a cui viene affidato il lavoro più semplice, appunto quello di liberare dalla schiuma di cottura i broccoli. La “schiuma“ ispira epiteti ingiuriosi usati ancora oggi. Qualche anno, fa, su una spiaggia calabrese sentii una distinta signora napoletana affibbiare a una sua cognata, assente, l’epiteto di scumma ‘ e chiazzetta.

Usò l’espressione con l’aria di chi non si rende conto di quello che dice: lo dice perché l’ha sentito dire. La Chiazzetta era lo slargo che chiudeva via Sedile di Porto dalla parte interna, là dove ora si trova l’edificio della Posta Centrale: in quello slargo sostavano, da mattina a sera, molte prostitute “stradaiole“: così la polizia borbonica classificava le prostitute vecchie o poco attraenti, che scendevano in strada di primo mattino, alla ricerca di qualche cliente, tra i “cafoni“, soprattutto carrettieri e vatigali, facchini e “padulani“, che venivano dalla campagna. Era un mondo di miseria e di disperazione, che alcuni scrittori “minori“ dell’Ottocento hanno rappresentato con crudo realismo. Scumma ‘e chiazzetta è la donna che incarna, al livello più osceno, la degradazione fisica e morale, la schiuma, il fior fiore della prostituzione.

E veniamo a zandraglia (sandraglia). Francesco D’ Ascoli riteneva che il termine venisse dallo spagnolo andrajos, che indica i cenci: dunque, donna cenciosa. Ma è più probabile che l’epiteto, di violenta volgarità, derivi dal francese les èntrailles, le interiora degli animali macellati, che venivano vendute per qualche spicciolo a chi solo qualche spicciolo poteva spendere per riempirsi, in qualche modo, la pancia. L’analogia è chiara. L’ingiuria fu coniata dai soldati francesi di Carlo VIII, che, conquistata Napoli col gesso più che con la spada, videro, sbalorditi, che tale era la fame dei plebei che essi divoravano perfino le interiora degli animali.

A Napoli, ogni guerra ha la sua fame e il suo alimento estremo: nel 1495 les éntrailles, nel 1943 la polvere dei piselli. Nella Lettera IV è descritto anche un interessante menù da taverna: ma non c’è più spazio. Alla prossima.

CIBI E RITI VESUVIANI