Con questa nuova rubrica apre la serranda uno spazio molto particolare: un”Officina dei sensi, in cui i lettori troveranno Storie vesuviane di cibi, di vini, di identità.
Di Carmine Cimmino
“Cibi e riti vesuviani” è una sorta di officina dei sensi, un luogo in cui troveranno spazio Storie vesuviane di cibi, di vini e identità. Si tratta di una rubrica nuova di zecca ma non lasciatevi ingannare dalle apparenze: non offrirà ricette “tout court” bensì farà chiarezza sulla corrispondenza tra cibi e bevande e credenze e riti.
L”oggetto dell”analisi, di partenza, dovrebbe riguardare la Comunità Vesuviana, ma il condizionale è d”obbligo dal momento che a curare la rubrica sarà il prof. Carmine Cimmino, uno storico, scrittore, ricercatore appassionato di storie non comuni, che quando tratta certi argomenti sai da dove inizia ma nemmeno immagini dove ti condurrà, dal momento che ti affabula e affascina in un continuo rimando di argomenti correlati, ciascuno dei quali è un vero e proprio filone d”oro di notizie originali e curiosità incredibili.
Il prof. Cimmino per il nostro giornale ha iniziato a curare anche “La storia magra” (VEDI). Una rubrica che sta già riscuotendo molto interesse da parte dei lettori, nella quale il prof. riporterà documenti e fatti puliti dal peso dei condizionamenti, per aiutarci a capire perchè i nostri territori sono così come li viviamo (subiamo?), da dove siamo partiti e in quali condizioni. E cosa è successo durante il tragitto storico.
Buon viaggio a tutti.
LP
Conti i libri che si ammassano nelle vetrine e sulle bancarelle, e ti viene da pensare che sulla cucina napoletana sia stato scritto tutto. Poi sfogli, leggi, rifletti, e ti accorgi che quei libri, quasi tutti, sono “minestre” tirate fuori, più o meno abilmente, da pochi testi sacri: Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino, Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, Giuseppe Marotta, Mario Stefanile, Nello Oliviero. Si mettono insieme le solite notiziole sui maccheroni, sulla “margherita” e sulla mozzarella, sul “capretto fujuto” e sull” insalata di rinforzo, sulla minestra maritata e sulla pastiera di grano, si mischia il tutto, si guarnisce con qualche ricetta, e il libro è fatto.
Capita perfino che qualcuno, confidando nella distrazione del lettore, infili nella tradizione napoletana qualche piatto che di napoletano non ha proprio nulla. O che qualcuno si azzardi a dichiarare, per esempio, che senza la mozzarella la cucina italiana non esisterebbe.
La storia dell”alimentazione è molto di più che una storia della cucina: essa cerca le corrispondenze che una comunità ha stabilito, a conclusione di una tormentata sequenza di impulsi, di riflessioni, di associazioni visive e concettuali, tra cibi e bevande, da una parte, e credenze e riti, dall”altra. Riti “alti”: come l”usanza dei contadini vesuviani – usanza rispettata ancora nel primo Novecento – di mangiare pane e fave, o pane e noce, subito dopo il funerale di un congiunto: il pane è un simbolo della luce solare e della vita che si rinnova, la fava e la noce rappresentano, invece, il legame con il mondo sotterraneo.
Riti minimi: mia madre era categorica: la “palatella” di pane non andava mai nè poggiata nè tagliata a rovescio, dalla parte del dorso. L”olio e il sale erano protagonisti delle pratiche contro il malocchio, e contro le “fatture”; rompere la bottiglia piena d”olio era un tremendo malaugurio, e non solo per il costo dell”olio; se invece si versava vino rosso sulla tovaglia, era necessario, per stornare il malaugurio, che tutti i presenti intingessero il dito nella macchia ancora umida, e lo portassero a tracciare un segno sulla carotide.
Duby, Le Goff, Ariès, Piero Camporesi Folco Portinari e Massimo Montanari ci hanno svelato quanta cultura si nasconda dentro un piatto e in un bicchiere di vino, ma Napoli aspetta ancora che qualcuno scriva la storia della sua alimentazione (e anche la storia dei suoi odori, prima che si cancelli dalla memoria il ricordo degli orrori olfattivi prodotti dai cumuli della monnezza). Si potrebbe partire, per scrivere questa storia dell”alimentazione, da un” idea di Camporesi, che distingueva, in Italia, il nord della civiltà del lardo e del burro dal sud della civiltà dell”olio; sarebbe necessario indagare le ragioni – la religione, il clima, le paludi – che portano sulla tavola napoletana ricotta e mozzarella, ma ne tengono lontano, per secoli, il formaggio a pasta dura.
Bisognerebbe capire perchè i “mangiafoglie” – così i toscani chiamavano i napoletani – si trasformarono in “mangiamaccheroni” e cosa spinse Caflish, a metà dell”Ottocento, a impiantare una fabbrica di birra in una città come Napoli, che nei suoi vini rossi mescolava le suggestive memorie di Dioniso, del sangue dei tori del dio Mitra, del sangue di San Gennaro, e del fuoco del Vesuvio. Si potrebbe raccontare la storia del pomodoro, dalla sprezzante condanna che Castor Durante pronunciò nella seconda metà del “500, “dà poco e cattivo nutrimento”, al sospettoso elogio di Vincenzo Corrado, “varie gustosissime vivande si possono fare di pomidoro, ed infinite conditure col sugo loro si prestano alle carni, ai pesci, alle uova, alle paste..”, fino al libro di Artusi che nel 1891 riconosce il sugo e la salsa di pomodoro come condimenti nazionali.
Napoli è una città doppia. La città di sopra e la città sotterranea, la luce e le tenebre, si contaminano senza sosta, oggi con la stessa forza di ieri: così che i valori rituali e magici delle cose, e dunque anche del cibo, vivono intatti nel sentimento collettivo. Nel “500 il papa Paolo III Farnese beve il Greco di Somma, e se ne serve per bagnarsi, ogni giorno, gli occhi e “le parti virili”; tre secoli dopo Salvatore De Renzi, Maestro della clinica napoletana, mette l”aglianico nella dieta dei colerosi convalescenti, e lo conferma in quella dei melanconici e dei nevrastenici, e un medico francese, che ha il suo studio nei pressi della Vicaria, suggerisce impacchi di vino bianco alle signore che vedono la loro bellezza minacciata da cuscinetti di grasso e da deformanti gonfiori.
I camorristi non mangiano carne il venerdì, perchè la Chiesa lo vieta, ma non la mangiano nemmeno il mercoledì, giorno sacro alla Madonna del Carmine, di cui tutti gli affiliati alla Onorata Società si dichiarano devoti. Parleremo un”altra volta dello stocco, di cui alcuni ordini religiosi favoriscono il consumo, classificandolo come cibo penitenziale, e del perchè già nell”Ottocento la lavorazione dello stocco è concentrata a Somma, e Sant” Anastasia è la patria dell” arrosto di capretto, e stocco e capretto sono i piatti rituali del lunedì d”Albis a Madonna dell”Arco.
Un almanacco del 1848 propone per Pasqua e per l”8 maggio, giorno sacro a San Michele, questo menù: zuppa de” pesielli, composta di piselli bolliti e cepollette zoffritte: il tutto adagiato su fette di pane abbrustolito; zeppolelle di baccalà, e cioè porpa di mussillo di baccalà “mbrogliata in una pasta molla molla di grano di criscito e “na presa di vino: il tutto fritto in una tiella chiena d”uoglio. Il Cavalcanti riteneva che non potessero mancare dalla mensa pasquale le carcioffole mbottunate de scammaro, cioè imbottite di magro, con un ripieno di capperi, ulive, prezzemolo, alici salate “ntretate (tagliate cioè a piccole strisce): tutti ingredienti dalla storia complessa: capperi, olive, prezzemolo, baccalà, piselli e cipolle.
Complessa e infelice è la storia della cipolla, che soffrì anche nell” “immaginario” dei napoletani di quella crisi di identità che si era prodotta nel mondo antico e fu confermata nel Medioevo, quando non si riuscì a trovare un accordo tra i teologi che vedevano nel bulbo il simbolo positivo dell”itinerario che porta dall”inganno delle apparenze alla sostanza della verità, e quelli che invece consideravano la cipolla una pianta malefica. Anche di questo parleremo prossimamente.
(Foto tratta da “Luisieri” di Fabrizia Spirito)