Gli Ottavianesi e le campane a festa salutano Maria Catapano, uscita di vita a 103 anni, vista come simbolo di generazioni di donne che fecero grande la città. Anche l’omaggio dei contadini a Santa Barbara è stato un’ esortazione alla speranza.
Il quartiere San Giovanni, scrissi qualche tempo fa, si dispone intorno alla piazza come una rete di spigoli e di squarci, di curve cieche e di “cupe”, invase dal respiro della vicina campagna: alcune case dai muri scabri vennero ricostruite con la cenere del vulcano che le aveva distrutte. E’ un quartiere “sospeso”: sta tra il centro e la periferia, osserva in silenzio, giudica con gli sguardi che non è facile interpretare. Ottaviano ha due centri storici: il Vaglio e San Giovanni, ma nel primo la storia è come rappresa per sempre in un inerte silenzio, mentre San Giovanni ha ancora voce e cuore, è un registro di pietra su cui generazioni di uomini vivi lasciarono e lasciano i segni delle loro vicende, e i nomi delle famiglie, di tutte le famiglie, sono nobili di una nobiltà democratica, che attraversa il tempo dal passato al presente. Sotto i basoli delle strade incise tra i palazzi si aprono antiche cantine, che in un’epoca remota il monastero napoletano dei Santi Severino e Sossio dava in affitto ai produttori di vino del territorio: questi luoghi “segreti”, colmi di storia e di vita, sono il simbolo di un quartiere che ha saputo conservare la sua identità. E quanto preziosi siano i valori di questa identità i Sangiovannari l’hanno dimostrato nell’ultima settimana.
Venerdì 11 hanno dato l’ultimo saluto a Maria Catapano, la Nonna del quartiere e di Ottaviano tutta, che ha concluso il percorso terreno a 103 anni. A questa età non si muore, si esce dalla vita: e la dipartita di Nonna Maria gli intellettuali la chiamerebbero, con un prezioso nome latino, “exitus”, un’ “uscita” dalla vita carica di significato, un simbolo. In un simbolo l’ha trasformata la folla degli Ottajanesi che hanno sentito il bisogno di portare l’ultimo saluto alla signora Maria, sollecitati non tanto dalla sua età, ma dalla coerenza con cui la linea della sua vita ha percorso, senza incertezze e contraddizioni, un secolo difficile e, per Ottaviano, drammatico. Nonna Maria ha visto gli ultimi bagliori della grandezza della nostra città, il pomeriggio intenso dell’ultima luce, e poi il tramonto, e poi la sera. Ma lei è rimasta serena fino all’ultima ora, e serena è entrata nell’ultimo sonno, pronta a dar conto al Giudice Supremo di una vita consacrata al lavoro, ai figli, ai nipoti, al coraggio silenzioso di chi affronta i problemi quotidiani con il dovere di risolverli per costruire il presente e il futuro della famiglia. Nonna Maria è stata l’ultima testimone di generazioni di donne forti e sagge che hanno fatto grande la nostra città e l’hanno tenuta a galla negli anni terribili della seconda guerra mondiale e del dopoguerra, tanto da meritare l’elogio commosso che don Pietro Capolongo affidò alle pagine del suo diario. Un mio carissimo amico ha pensato che fosse giusto che nel salutare l’ “ uscita “ di Nonna Maria le campane suonassero a festa, e non a lutto: e il parroco di San Giovanni ha fatto suo il suggerimento. Così il simbolo si è completato con la nota della speranza: perché la serenità di Nonna Maria è un’esortazione alla speranza. Ed è naturale, per chi conosce la storia di Ottaviano, che questa esortazione venga dal quartiere San Giovanni.
Un’esortazione alla speranza è stato l’omaggio che anche quest’anno i contadini ottavianesi hanno tributato, nella Chiesa di San Giovanni, a Santa Barbara. La tradizione di questo culto, di antica data, venne ripresa e rinnovata, qualche anno fa, dal parroco don Antonio Fasulo: il parroco di oggi, don Savino, e Vincenzo Caldarelli, che cura l’organizzazione della cerimonia “laica”, mirano a interpretare il rito in una prospettiva non solo storica e religiosa, ma anche sociale, nella speranza che l’agricoltura, affidata al lavoro dei giovani, possa ancora salvare l’economia della città. Certo, i cesti sono stati portati nella chiesa ( vedi foto in appendice) dagli stessi contadini “storici” che vedemmo l’anno scorso, Alfonso e Giovanni ‘ e cinquanta, zio Pietro ‘e Laveliveto, Mimì ‘e Tummasella, Pasquale ‘e Mesollino, ma quest’anno l’atmosfera ci è sembrata diversa, quasi che la folla dei fedeli riscoprisse all’improvviso, negli scintillanti colori della frutta vesuviana, la bellezza e la fertilità del territorio. Sarebbe bello se anche la Sagra, che ogni anno si tiene in piazza San Giovanni, venisse dedicata ai prodotti della nostra terra, e se l’ Ente Parco del Vesuvio e le istituzioni locali aprissero il dibattito sugli orti, sui giardini e sulle selve montane abbandonati all’invasione delle erbe maligne.
Dunque, nell’ultima settimana il quartiere San Giovanni ha invitato gli Ottajanesi a riflettere, ancora un volta, sulle immagini di vita e di morte che senza sosta si alternano, e spesso si sovrappongono, lungo il filo del nostro vivere quotidiano. E perciò mi è sembrato opportuno corredare l’articolo con l’immagine della “ canestra “ di Caravaggio, sfavillante repertorio della vitalità della Natura, in cui la mela, bacata, già porta in sé il segno del disfacimento.