LA BREVE STAGIONE DI VINCENZO BARONE, BRIGANTE DI SANT” ANASTASIA. PRIMA PARTE

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Il brigantaggio vesuviano fu un fenomeno molto importante nelle vicende post-unitarie perchè intrecciò gli interessi della camorra e del nuovo sistema politico, aprendo la strada all”inquinamento della società civile.
Di Carmine Cimmino

Vincenzo Barone visse una breve stagione da ribelle. Tentò di restare un ribelle politico, ma non ci riuscì. Non potè evitare che nel suo gruppo, insieme con gli “sbandati” dell”esercito borbonico, entrassero anche delinquenti comuni e picciotti di camorra, fuggiti dalle carceri del Granatello e di Barra. Mise insieme una cinquantina di “soldati”, gente di Somma, di Sant”Anastasia, di Pollena, di Ponticelli, reclutata dai suoi luogotenenti Vincenzo Terracciano, Gennaro Mauro, Filippo Rega, di Pomigliano, che portava un cappello di paglia ornato di una penna di pavone, Alfonso Aliperta il Malacciso, Alfonso Sessa, Gennaro Maione e Giovannangelo Sodano.

Gli ufficiali del 7° fanteria già nel maggio del “61 dicevano che dietro Barone c”era un comitato filoborbonico, composto da “galantuomini” di Somma e di Cercola, soprattutto, e dai nobili e dai funzionari “della passata tirannia” che possedevano ville, “casini” e masserie nel territorio. Questo comitato, se mai esistette, cessò di funzionare già nel giugno, quando Silvio Spaventa dispose che le Guardie Nazionali dei Comuni ad est del Vesuvio venissero sostituite, nel controllo dell”ordine pubblico, da fanti e da bersaglieri.

Per procurarsi il danaro necessario a mantenere la banda, Barone fu costretto a inviare “biglietti” estorsivi ai più facoltosi proprietari del territorio, senza far distinzione tra liberali e borbonici. Contemporaneamente si infiltrarono nel suo gruppo spie e doppiogiochisti, al soldo non solo dei “piemontesi”, ma anche della camorra, diciamo così, ufficiale, che non sopportava l”ingombrante concorrente, ritenendolo, tra l”altro, responsabile primo della massiccia militarizzazione del territorio.

Il brigantaggio vesuviano fu un fenomeno di cruciale importanza nelle vicende post-unitarie, perchè strinse in un viscido intreccio gli interessi della camorra e del nuovo sistema politico, e aprì la strada a quell”inquinamento della società civile, che è, a parer mio, il problema vero della nostra storia. Penso che sia venuto il momento di scrivere, dopo tante storie più o meno folcloristiche della camorra, una storia vera e cruda della società civile napoletana.

Il 19 agosto del “61 Barone entrò nel territorio di Ottajano per consegnare “un biglietto estorsivo” con la richiesta di 2000 ducati a Raffaele Saggese Matafone, ricchissimo costruttore di botti e sensale onnipotente di “partite” di uva. Ma il colpo fallì. Cavalcava al fianco del brigante la sua donna, Luisa Mollo, “vestita alla maschile” – lo scrivano della Guardia Nazionale ottajanese sentì il bisogno di sottolineare con un grosso tratto le tre parole – e con due pistole infilate nella cintola: una pittoresca Bonnie vesuviana. Il giorno dopo, Barone scese a Pollena, dal suo rifugio in montagna, e penetrò, con quattro dei suoi, nella casa dell”ottantenne Felice Miceli, che era stato, sotto i Borbone, importante funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia.

Mentre i suoi tenevano fermi la moglie del Miceli, che si chiamava Teresa Buonincontri, la cameriera e un ospite, Antonio Filosa, Barone, bestemmiando come un ossesso, puntò il pugnale sul petto del vecchio e gli intimò di consegnare i 30000 ducati che, secondo le spie della banda, conservava in un cofanetto. Miceli stava per rispondere, probabilmente, che gli informatori lo informavano male, ma non gli fu dato nemmeno il tempo di aprir bocca: il più giovane del gruppo, Modestino Martinelli, di Ponticelli, lo “crivellò” con otto pugnalate: e quando il vecchio cadde supino nel suo sangue, il giovanotto si fece passare “tra le labbra” “il filo del pugnale insanguinato”: secondo Vincenzo Vecchione detto il Foriere, di Pollena, “per acquistar coraggio”, ma, secondo Raffaele Di Marzo detto Canesca, “in atto di bravura, per aguzzar la punta” che negli otto colpi si era smussata.

I briganti portarono via “un abito completamente scuro, biancheria, un orologio da tavolo, un cannocchiale, due papare, alcuni pezzi di baccalà e di lardo”, e pantaloni e mutande, che Modestino tenne per sè. Il Foriere permise al compaesano Filosa, che piangeva e tremava, di andar via, mentre la moglie di Miceli e la cameriera vennero costrette a seguire il gruppo. Poi, quando la strada incominciò a salire, alle due donne venne consentito di tornare indietro. Il comandante della compagnia di fanti che era di stanza a Sant” Anastasia scrisse, nella sua relazione, che la moglie del Miceli trovò la casa piena di persone che si erano precipitate a saccheggiare il palazzo incustodito: intorno al cadavere del vecchio, immerso nel sangue, si disputavano le ultime spoglie.

Intanto, alcuni briganti festeggiavano l”impresa a casa di un “manutengolo” di Pollena, che già nel pomeriggio aveva fatto provvista di pasta e pane. Il resto della banda salì con Barone in località Sant”Angelo. Qui, mentre si esaminava il bottino, uno dei suoi gli domandò che fine avessero fatto gli orecchini di brillanti che egli aveva strappato dalle orecchie della moglie di Miceli. Barone rispose che li aveva persi lungo la salita. Egli capì che il suo prestigio si stava dissolvendo: e per misurare quanto gliene restasse, ordinò di giustiziare i 4 sommesi che si erano rifiutati di partecipare alla spedizione in casa del funzionario borbonico.

Protestò uno dei condannati, Arcangelo Parisi, una guardia campestre che si era dato alla macchia dopo aver ucciso un proprietario terriero di Somma, Alfonso Di Madero: ma il sommese Alfonso Sessa, offrendosi “spontaneo ai bisogni” del capo, appoggiò la pistola sulla tempia del suo concittadino e sparò. Venne ricompensato con l”abito scuro di Miceli. Quella notte di sanguinaria follia mise fine alla storia di Barone. Pochi giorni dopo il capo-brigante venne ucciso dai soldati: e i modi, i tempi e i meccanismi di questa “esecuzione” di Stato prefigurano altre oscure vicende di morte, di cui è disseminata la storia italiana: la storia di una democrazia imperfetta.

LA STORIA MAGRA